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Per fare fundraising devi andare al Fäviken

fäviken

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Ieri sera guardavo su Netflix una nuova serie dedicata ai migliori chef del mondo. Premessa: io non amo i programmi di cucina, non ho visto una sola puntata di Masterchef e – da celiaca – vivo con nostalgia ogni ricordo del cibo “vero”. Eppure, sono rimasta incollata allo schermo per tutta la durata dell’episodio, dedicato a Magnus Nillson, chef del 19esimo ristorante migliore al mondo (al mondo!!).

Il ristorante si chiama Fäviken e il menu degustazione ha il valore del mio stipendio mensile. Tuttavia la sua particolarità non è il numero di stelle Michelin, ma il fatto di trovarsi in un luogo sperdutissimo a 600 km da Stoccolma. Per arrivare al Fäviken partendo da Torino bisogna prendere due aerei, due pullman, un treno e una macchina a noleggio. Poi c’è solo un lungo tratto di neve ghiacciata e pini, che è poi il motivo per cui gli ospiti sono invitati a restare a dormire nell’hotel adiacente al ristorante.

Ora, riassumendo: ristorante sperduto, Svezia, ghiaccio, cucina di alta classe, ottima reputazione. Com’è possibile?

La cosa che più mi ha colpito, in questo documentario, è la ricerca continua della perfezione. Magnus Nillson dice più volte una cosa molto interessante: “Ogni volta che provavo a fare una ricetta presa da un libro di cucina, magari francese, mi sembrava di averla rubata, di farne – nella migliore delle ipotesi – una brutta imitazione di qualcosa creato da altri.

Non smettere di cercare la perfezione.

Cosa fa allora il buon Nillson? Decide di smettere di cucinare. Lui. Quello che sarebbe arrivato nella top 20 dei migliori chef del mondo. Lascia Parigi e se ne torna a casa sua, nel freddo gelido della Svezia. Gli viene proposto di dare una mano a tirar su un piccolo ristorante, il Fäviken appunto, e lui accetta quasi controvoglia. E qui accade il miracolo. Andando in giro, vivendo l’unicità assoluta di quel luogo – fatto di neve, di stagioni totalmente diverse dalle nostre nella loro alternanza – Nillson riscopre gli ingredienti unici della sua terra, ed inizia ad accostare sapori, a sperimentare ricette antichissime, metodi di conservazione e di cottura nuovi ma sempre esistiti. Trova la sua strada e ta-dah, ecco lo chef stellato.

Forse vi starete chiedendo che senso ha raccontarvi questa storia.

Ecco, il punto è che io credo davvero che il desiderio di migliorarsi, di perfezionarsi, di andare oltre la propria zona di comfort, sia fondamentale per chiunque desideri diventare un vero professionista. Non basta un titolo di studio, un corso di 100 ore, un webinar. Non basta nemmeno avere vent’anni di carriera nel mondo del non profit, forse. Se manca la curiosità, quella spinta continua che porta a non sentirsi “arrivati”, il rischio di sedersi e accontentarsi è altissimo.

Cosa c’è di peggio? Qualcuno che si propone come consulente di fundraising dopo un tirocinio di sei mesi, o un “guru” del settore che macina da anni le stesse cose, come se il mondo intorno a lui non fosse cambiato? Sono la stessa cosa, perché alla base manca quell’umiltà consapevole di avere sempre ancora qualcosa da imparare.

A volte sento commenti stupiti quando dico che vado a questo o quel corso di formazione. “Ma come, dopo un master e due anni di esperienza hai ancora bisogno di formarti?” Ma certo! Se non ora quando? Proprio perché vivo nella quotidianità professionale ho bisogno di aggiornarmi, di guardarmi intorno, di confrontarmi! Col tempo sono diventata più esigente, forse, ma in fondo l’obiettivo è quello di passare da lavapiatti a chef, no?

 

Guardati intorno.

L’altra cosa che mi ha molto colpito è il fatto che il Fäviken, il mondo che ruota intorno a questo ristorante, sia possibile solo lì, in quel contesto, e non altrove. Impensabile riproporlo a Parigi, per esempio, o a Castagnole Monferrato. Eppure, proprio perché é lì, il Fäviken funziona.

Questa cosa mi ha fatto pensare. A volte, guardando le campagne di una grande ONP, come Unicef o Medici senza Frontiere, mi dico che adattandole un po’, modificando il budget, realizzando qualcosa in modo più artigianale, semplificando qualcos’altro, in fondo potrei fare qualcosa di simile con la realtà per cui lavoro.

Poi mi dico che questo pensiero è profondamente sbagliato: perché noi non siamo loro. Perché con i nostri mezzi, la nostra storia, il nostro retroterra, i nostri donatori i casi sono due: provare a copiare, e tirarne fuori una brutta imitazione, o lavorare sulle nostre unicità, e capire cosa ci rende speciali, diversi. E’ più difficile provare in casa una ricetta di Bottura o aprire un Fäviken in Svezia? Entrambe, sicuramente, ma la seconda ha il pregio dell’unicità. E, tanto per restare in tema culinario, se abitate a Spilamberto forse non vi conviene rompervi la testa a fare la migliore polenta taragna del mondo, no? Perché non recuperare la ricetta dell’aceto balsamico del nonno?

Meditate, fundraiser, e se mentre leggete è ora di pranzo/cena, concedetevi una pausa.

Ve la siete meritata.

 

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