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Social Enterprise Boat Camp 2016: io c’ero!

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Social Enterprise Boat Camp: chi, cosa e perché?

Più di 400 persone si sono riunite per quattro giorni, dal 28 al 31 maggio 2016, per parlare di unicorni.

Già, avete capito bene, unicorni. Come definire altrimenti le imprese sociali – quei modelli di impresa che coniugano modelli di business sostenibile ( e non solo per le tasche degli azionisti) e di impatto sulla comunità? Ecco quindi riuniti imprenditori sociali, innovatori con un progetto di startup, operatori della cooperazione internazionale per parlare di corporate, finanza, etica e sostenibilità in un programma denso di attività e confronto, promosso da Fondazione ACRA e Gruppo Cooperativo CGM, oltre che Fondazione Opes e Enel.

Personalmente, mi sono avvicinata al mondo dell’imprenditoria tre anni fa, grazie a un corso della Fondazione CRT: già allora ero assolutamente convinta che l’unica via percorribile per un mondo che non fosse solo al servizio dei consumi e del profitto dovesse passare per forza di cose da un modello aziendale che prevedesse un’attenzione particolare all’impatto sociale. Poi la vita mi ha portato a lavorare per il mondo non profit, ma – vuoi la curiosità, vuoi qualche piccolo sogno nel cassetto – ho continuato a seguire l’evolversi del panorama dell’impresa sociale, e ho colto al balzo la possibilità offerta da una delle borse di studio di Ong 2.0 per cui sono anche formatrice.

Storie e ispirazioni da chi ce l’ha fatta

Le quattro giornate del Social Enterprise Boat Camp sono state un susseguirsi di testimonianze e di workshop per confrontarsi concretamente sui business plan – una parte fondamentale per chi deve convincere investitori e potenziali partner. Abbiamo avuto modo anche di confrontarci con speakers e relatori di altissimo livello, tra cui molte donne, da Elena Casolari (ACRA) a Maria Cristina Papetti (ENEL) e Laura Frigenti (Agenzia Italiana per la Cooperazione). Abbiamo ascoltato il percorso di business, spesso fatto di sacrifici, di otto imprese sociali: quattro sono italiane – con un moto di orgoglio ho assaggiato anche i buonissimi prodotti di Maramao, azienda agricola piemontese! – a dimostrazione che davvero questo modello di impresa è possibile (o almeno auspicabile) anche sul suolo nazionale.

Come per tutte le esperienze, però, quello che rimane impresso maggiormente sono sopratutto le storie, i racconti, le sensazioni trasmesse da un incontro speciale nello spazio di pochi minuti. Ecco quindi le mie due storie speciali, quelle che per me riassumono meglio questa prima edizione del Social Enterprise Boat Camp.

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Mauro Berruto: iniziare col piede giusto

Berruto non ha bisogno di presentazioni. Per gli appassionati di sport, è conosciuto per essere stato l’allenatore della squadra di pallavolo che vinse la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Londra del 2012. Per gli umanisti come me, invece, è un laureato in filosofia che ha contribuito a fondare la Scuola Holden, nota non solo a Torino come fabbrica di storyelling e narrazione. Forse vi state chiedendo quale legame unica Berruto al tema dell’imprenditoria sociale, e la risposta credo che possa interessare tutti, sopratutto noi che ci occupiamo di fundraising: chi motiva i motivatori? 

Gli imprenditori, così come tutti coloro che si trovano a dover gestire persone e team, sono spesso chiamati a condividere una vision, a ispirare persone per portare avanti progetti: ma cosa succede quando sono loro ad aver bisogno di una carica di motivazione supplementare? Ecco quindi condividere aneddoti sullo sport, sulla fatica come motore trainante del successo, dell’impegno. Fino ad arrivare a una formula:  

performance migliori = (capacità tecniche x capacità emozionali) / metodo

Non vi dice nulla, cari fundraiser?

Riccarda Zezza: la maternità è un master

Molti di voi fundraiser avranno sentito il nome di Riccarda in occasione del raduno di Assif lo scorso 27 maggio. Io purtroppo non ho potuto prendere parte a quella riunione, ma le vie del destino sono talmente intricate che mi sono trovata Riccarda come compagna di workshop nei gruppi di lavoro del Social Enterprise Boat Camp. Al momento delle presentazioni ho esordito con un “Ma io ti conosco già, tu sei quella di MAAM!“. In realtà, conoscere di nome qualcuno non equivale per nulla a capire chi è e cosa fa, ma per fortuna abbiamo avuto tempo di approfondire il discorso durante la traversata… Il motivo per cui inserisco in questo post proprio lei è quindi molto semplice:

1. La vera innovazione spesso non consiste nell’inventare qualcosa di nuovo, ma nel guardare un processo vecchio come il mondo (nel suo caso, la maternità) con occhi nuovi, trovando soluzioni originali ai problemi del nostro tempo

2. Il bello di esperienze come quella del Social Enterprise Boat Camp è che ti permette di conoscere idee nuove, ma se non si parla con le persone e non si condivide – oltre che al progetto – anche qualcosa di sé, tutto rischia di svanire al ritorno a casa. In questo Riccarda è stata bravissima, perché non solo mi ha reso partecipe della sua idea, ma è riuscita ad andare oltre, arrivando a discutere, davanti a un buon viso rosso spagnolo, dell’essere donna, compagna e madre (anche se io ancora non lo sono) per cui dopo non puoi che parlare a tutti di MAAM e della ricchezza che questo progetto porta con sè. Non è fantastico?

Conclusioni

C’è una cosa che non vi ho ancora detto. Al terzo giorno dl viaggio mi sono presa una misteriosa intossicazione alimentare (regolarmente diagnosticata dal medico napoletano di bordo) per cui ho passato l’ultimo giorno chiusa in cabina a vomitare, saltandomi praticamente tutte le attività della giornata. Non è bello, ma non potevo raccontarvi di quanto fosse stato meraviglioso il Social Enterprise Boat Camp senza questa perla. Ecco, senza voler fare pagelle, diciamo che la cosa positiva di stare su una nave è che non hai connessione e sei obbligato a parlare con le persone (già, nel 2016 bisogna essere costretti da cause esterne, non lo sapevate?). La cosa meno positiva è che se soffri il mal di mare, gli spazi angusti di una cabina o sei semplicemente delicata di stomaco, quattro giorni di nave non sono proprio il top. La proposta per il prossimo anno? Un rifugio in montagna: il Social Enterprise Mountain Camp! 

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