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Gennaio 2019: #cosebelle e #cosebrutte

Volevo inaugurare il 2019 con un post sui buoni propositi, sulla pianificazione, sulle campagne di Natale da rendicontare, ecc. Tuttavia, nell’arco di poche ore, ho deciso di raccontarvi qualcosa di molto più concreto e attuale, che parla di fundraising ma anche di come sta cambiando il mondo intorno a noi, nel bene e nel male.

#cosebrutte: lettere che non vorremmo mai ricevere

Se fate parte del gruppo Facebook Fundraiser d’Italia avrete sicuramente visto il post sull’ultimo mailing inviato da CESVI. Un post che ha creato un bel polverone e generato tantissimi commenti, a dimostrazione del fatto che noi fundraiser, oltre che tecnici e specialisti della raccolta fondi, siamo spesso anche persone con una propria visione del mondo.

 

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Perché questa busta crea tanta indignazione? Perché sembra cavalcare l’onda di un certo sentimento “nazionalista” emerso negli ultimi anni con sempre maggior prepotenza. Non proprio un “prima gli italiani”, ma un semplice sottolineare che loro – loro sì! – si occupano dei bimbi del nostro paese. Poi certo, possiamo puntualizzare sul fatto che i bimbi italiani sono anche quelli di altre culture che vivono qui da anni, ma ovviamente queste rimangono chiacchiere da salotto: è evidente che il target a cui scrive Cesvi, essendo un mailing prospect, è molto più generico, molto meno portato a fare queste associazioni.

Il rimando così spinto, così ripetuto, a quell’aggettivo “italiani”, e l’uso del tricolore sia nella busta sia nel testo della lettera, sembra fare appello a sentimenti molto più sotterranei. Riflettiamo anche solo sull’insight della busta: ” Chi pensa ai nostri bambini?”. E’ un commento che ho letto, declinato in vario modo, sotto centinaia di post, dalle persone più diverse. Pubblichi una foto dei morti in mare? C’è sempre quello che ti risponderà “Certo, ma chi pensa ai nostri poveri?”. Pubblichi una foto di un successo estero? “Certo, ma anche noi in Italia…”. Si tratta, insomma, di usare “nostro” e “loro” come strumento di contrapposizione, di divisione, di differenza. Di esaltare un sentimento ostile, rancoroso, che pervade ormai la comunicazione, specie quella online, e che delinea un target ben preciso. Senza addentrarci nella profondità della psiche umana o degli schieramenti politici, mi sembra infatti evidente che questo tipo di messaggio sia la punta dell’iceberg di una comunicazione che nasce qualche anno fa con il discredito delle ONG – sopratutto quelle che operano in mare nel salvataggio dei migranti – per arrivare oggi a strizzare l’occhio all’italiano medio.

Purtroppo il tono della lettera non migliora, anzi. L’aggettivo italiani è ripetuto quasi ossessivamente, e persino la storia della ONP viene rivista in quest’ottica: “siamo un’organizzazione italiana, radicata nel nostro paese“…perché? Cesvi è nota per la sua serietà nei programmi di cooperazione, davvero non c’era bisogno di sottolineare la componente nazionale, no?

 

Quando il rapporto con i donatori viene meno

Ma c’è un altro aspetto che mi ha colpito – ed è forse meno di pancia, più razionale. La call to action al dono non rinvia a nessun progetto concreto. Non c’è nessun riferimento a quanto corrisponde una donazione (il classico ” con 10 euro puoi…”) e alle soluzioni concrete proposte da CESVI. Considerata la sempre maggior tendenza alla disintermediazione del dono, e alla generica diffidenza verso le ONP (soprattutto quelle più grandi, di cui non vedi direttamente l’operato nel doposcuola o nel giardino dietro casa), la scelta è davvero discutibile.

In questo senso, la sintesi più efficace l’ha espressa Massimo Coen Cagli:

A pagarne, a mio avviso sono, nell’ordine: la causa dei bambini che subiscono violenza, che viene usata strumentalmente come oggetto di marketing e poco più; il CESVI (per l’immagine prodotta verso i donatori fedeli e i loro stakeholder principali) il settore delle ONG che sempre di più verrà ritenuto , per quanto a torto, una macchina da soldi più che un vero impegno sociale.

L’ultima riflessione che vorrei condividere con voi riguarda la lettera aperta di CESVI, di cui comunque va ammirata la prontezza nel rispondere alla crisi. Se CESVI si fosse fermata alle prime righe, infatti, sarebbe stato perfetto.  

La lettera che avete ricevuto è stata concepita con l’obiettivo di accendere un faro sulla situazione dei minori nel nostro Paese e di segnalare quanto possa essere prezioso un sostegno economico per rafforzare l’impegno che Cesvi porta avanti a tutela di bambini e adolescenti in Italia. Obiettivo perseguito con leggerezza attraverso un’infelice sintesi pubblicitaria che, ci rendiamo conto, non è giustificabile.

Scuse sincere, ammissione di colpa, assunzione di responsabilità e numero verde a disposizione dei donatori: tutto perfetto, da manuale. Invece no. Ad un certo punto, dopo l’elenco di tutti i progetti di CESVI destinati ai bambini, la lettera chiude dicendo che “il nostro appello ha dato luogo a un fraintendimento“. Eh no, così non va. Non siamo noi ad aver capito male! Siete voi che avete provato ad usare un tipo di comunicazione, provocando in noi queste reazioni di disappunto, delusione, a volte anche amarezza. Non vi è andata bene, mi spiace. Ma davvero, in questa storia, siamo noi donatori ad avere ragione, non provate a girare la frittata e farci passare per scemi.

 

#cosebelle: lo sciopero per la fame per i diritti dei migranti

 

Qualche giorno fa sono stata invitata a partecipare a questa iniziativa, che ho trovato subito molto interessante. Si tratta di uno sciopero della fame previsto per tutta la giornata del 28 gennaio (giustamente vicino alla Giornata della Memoria): non pensate subito ad un’azione un po’ antiquata per far sentire la propria voce. Le promotrici, infatti, sono andate oltre, proponendo altre iniziative da realizzare in occasione dello sciopero:

Donare quello che si è risparmiato non mangiando ad una delle organizzazioni che si occupano di salvataggio in mare dei migranti (evviva, torniamo a credere nelle ONG!)
Organizzare una raccolta alimentare e donare il ricavato ad una delle associazioni che lo possono distribuire;
Spiegare ai colleghi in pausa pranzo perché non stai mangiando e discutere con loro del tema; re
Organizzare una “cena a digiuno” per coinvolgere amici, familiari, vicini di casa…e chiunque abbia interesse ad attivarsi con ulteriori azioni a favore di migranti e rifugiati;
Firmare l’Iniziativa dei Cittadini Europei “Welcoming Europe”, per un’Europa che accoglie: https://tinyurl.com/y86lbey4 ;
– La giornata del 28 farsi una foto davanti ad un piatto vuoto e postarla sui social con l’hashtag #CiPassaLaFame ripubblicando l’appello, raccontando anche i motivi che hanno spinto ad aderire.

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Dopo aver aderito compilando il form ho subito scritto a Donata Columbro, una delle promotrici di questa iniziativa, e le ho fatto qualche domanda.

Come è nata l’idea? Perché proprio uno sciopero della fame?
L’idea è nata dopo l’ennesimo naufragio nel canale di Sicilia che ha coinvolto 120 persone, lasciando solo tre superstiti, e dopo poche ore, aver ascoltato la notizia che un altro gommone partito da Homs e rimasto in pericolo 24 ore sarebbe stato “salvato” dalla Guardia Costiera Libica e riportato a Misurata. E dico “salvato” tra virgolette perché le persone a bordo di quell’imbarcazione, 150 tra uomini, donne e anche bambini, dalla Libia e dalle torture ormai accertate perpetrate nei campi di detenzione stavano scappando. Lunedì sera il giornalista Daniele Biella ha condiviso sul suo profilo Facebook una testimonianza di quanto visto e ascoltato a bordo della nave Aquarius nel 2017, parole durissime da leggere e accettare rispetto alla nostra responsabilità di quanto succede a pochi passi da casa nostra. Ho condiviso il post esasperata dicendo “forse ci vorrebbe uno sciopero della fame, non si può far finta di nulla”. E dall’Etiopia un cooperante, Giulio Cocchini, ha colto l’appello e insieme ad altri attivisti tra cui Claudia Vago, Claudio Riccio e Martina Cera, abbiamo iniziato a organizzare la mobilitazione. Lo sciopero della fame e l’hashtag #CiPassaLaFame indicano proprio questa presa di posizione di pancia davanti una situazione che non si può più far finta di non vedere. Abbiamo poi immaginato di rendere accessibile la protesta proponendo di saltare anche solo il pranzo o la cena, e in quel momento organizzare un confronto tra colleghi, in famiglia, nella propria comunità. Le adesioni sono state tantissime.
Avete scelto una modalità innovativa di abbinare raccolta fondi e attivismo: credi che in questo modo si riesca, anche solo un poco, a combattere il fenomeno della disintermediazione del dono che appare tipico dei comportamenti italiani degli ultimi anni?
Tantissime persone ci hanno chiesto aiuto per sapere a chi donare. Credo che ci sia il desiderio da parte di molti di mettersi a fare qualcosa di concreto ma non sapere da dove partire. Come se ci volesse qualcuno di fiducia anche qui che possa accompagnare nella scelta.
L’altro aspetto molto interessante è quello della “cena a digiuno”: perché pensi che sia importante confrontarsi su questi temi davanti alla macchinetta del caffè con i colleghi o a cena con amici e parenti? Non pensi che ci sia il rischio di parlare solo con chi già la pensa come noi, o al contrario di creare tensioni per opposti punti di vista?
In realtà ho scoperto che “chi la pensa come noi” purtroppo non è più la maggioranza delle persone. Proprio in ambienti misti, come può essere un’azienda, dove le persone che frequento non le ho scelte perché hanno idee simili alle mie, può essere un luogo interessante dove provare a lanciare un dibattito davanti a un piccolo gesto come non andare in mensa o non portarsi il pranzo da casa. Sarà interessante ascoltare le storie di chi ha aderito.

 

Ho fatto bene a includerle nelle #cosebelle, vero? Per maggior informazioni ecco il sito #cipassalafame e l’evento Facebook.

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